Il tempo aveva perso il suo
flusso eguale; su di loro incombeva immobile una penombra confusa, fumo e
polvere trascinati dal vento…La terra si fece silenziosa, poi la sonora massa
omogenea s’incendiò di esplosioni successive, l’anima fu invasa da una totale
spossatezza; sembrava che tutte le forze vive ne fossero state schiacciate per
lasciar posto alla sola angoscia.
Klimov si sollevò: accanto a
lui giaceva un altro soldato coperto di polvere, un terzo uomo macinato dalla guerra,
tedesco dalla testa ai piedi. Klimov non aveva paura dei tedeschi, era sempre
sicuro della sua forza, della sua stupefacente abilità di premere il grilletto,
scagliare una granata, dare una coltellata o un colpo di calcio del fucile un
secondo prima del nemico.
Ma ora si sentiva smarrito,
sgomento dal fatto che assordato e accecato si era rallegrato sentendosi un
tedesco accanto, di avere scambiato la mano del tedesco per quella di Poljakov.
Si esaminarono l’un l’altro,
entrambi oppressi dalla stessa identica forza, entrambi incapaci di lottare
contro di essa, che non sembrava dipendere da ognuno di loro, ma minacciarli allo
stesso modo tutti e due.
Tacevano, i due abitanti
della guerra. L’automatismo perfetto e infallibile – uccidere – non era
scattato.
Poljakov, seduto poco
distante, guardava anch’esso la faccia setolosa del tedesco. E benchè non
amasse stare zitto a lungo questa volta taceva.
La vita era terribile, ma
nel fondo dei loro occhi balenò la malinconica consapevolezza che anche dopo la
guerra la forza che li aveva schiaffati in quella fossa, cacciando il loro muso
nel fango, non avrebbe falciato solo i vinti.
Come se si fossero messi d’accordo
si affrettarono ad arrampicarsi fuori dal cratere porgendo schiena e nuca ad
una facile fucilata, irremovibilmente sicuri tutti e tre della reciproca
incolumità.
Poljakov scivolò, ma il
tedesco che cercava di risalire accanto a lui non lo aiutò, e il vecchio si
ritrovò nel fondo a imprecare e maledire la luce chiara, verso la quale si
inerpicò con rinnovata ostinazione.
Quando Klimov e il tedesco
furono in superficie, entrambi si misero a guardare: uno a oriente, l’altro a
occidente, se per caso i superiori non vedessero che uscivano tutti e due dalla
medesima buca senza essersi combattuti.
Senza voltarsi, senza
neanche un “saluto”, ognuno si diresse alle rispettive trincee, colli e valli
di terra arata, ancora fumante.
«La nostra casa non c’è più:
è stata rasa al suolo» fece spaventato Klimov a Poljakov, che lo raggiungeva
trafelato. «Possibile che vi abbiano uccisi tutti, fratelli miei?»
In quel mentre cannoni e
mitragliatrici ripresero a puntare tra urla e schianti.
Le truppe tedesche avevano
dato inizio alla grande offensiva.
Fu il giorno più duro di
Stalingrado.
«Tutta colpa di quel
maledetto di Serëža» brontolava Poljakov.
Non aveva ancora capito
quanto era accaduto, che nella casa “sei barra uno” non era rimasto nessuno; i
singhiozzi e le esclamazioni del compagno lo irritavano…
Grossman Vassilij Semenovic - Vita e destino, pagina 434-435
Jaca Book Milano 1998