venerdì 26 agosto 2022

Bontà insensata



        Ed ecco, a fianco del minaccioso, grande bene, esiste una bontà quotidiana. È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che da da bere dalla sua borraccia al nemico ferito, della gioventù che ha pietà della vecchiaia, è la bontà del contadino che nasconde nel fienile un vecchio ebreo. È la bontà dei guardiani che mettendo in pericolo la loro stessa libertà, consegnano le lettere dei prigionieri, non ai propri compagni di fede, ma alle madri e alle mogli. Questa bontà privata di un singolo individuo nei confronti di un suo simile, è senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori dal bene religioso o sociale.

        Ma se ci soffermiamo a riflettere, ci accorgiamo che la bontà fine a se stessa, privata, casuale, è eterna. Essa si diffonde su tutto ciò che vive, perfino sul topo, su quel ramo spezzato che il passante, fermandosi un istante, accomoda perché gli sia più naturale e facile cicatrizzarsi e guarire.

        In questi tempi terribili, quando la follia regna nel nome della gloria dei vari stati, delle nazioni, del bene universale, in un'epoca in cui gli uomini non sembrano più uomini, ma sono stroncati come i rami degli alberi, e come pietre che tirano giù le altre pietre riempiono burroni e fosse, in quest'epoca di orrore e d'insensata pazzia la bontà pietosa, sparsa nella vita come una particella di radio, non è svanita.



Grossman Vassilij Semenovic - Vita e destino, pagina 405-406 Jaca Book Milano1998

Quel maledetto di Serëža

Il tempo aveva perso il suo flusso eguale; su di loro incombeva immobile una penombra confusa, fumo e polvere trascinati dal vento…La terra si fece silenziosa, poi la sonora massa omogenea s’incendiò di esplosioni successive, l’anima fu invasa da una totale spossatezza; sembrava che tutte le forze vive ne fossero state schiacciate per lasciar posto alla sola angoscia.

Klimov si sollevò: accanto a lui giaceva un altro soldato coperto di polvere, un terzo uomo macinato dalla guerra, tedesco dalla testa ai piedi. Klimov non aveva paura dei tedeschi, era sempre sicuro della sua forza, della sua stupefacente abilità di premere il grilletto, scagliare una granata, dare una coltellata o un colpo di calcio del fucile un secondo prima del nemico.

 

 

        Ma ora si sentiva smarrito, sgomento dal fatto che assordato e accecato si era rallegrato sentendosi un tedesco accanto, di avere scambiato la mano del tedesco per quella di Poljakov.

Si esaminarono l’un l’altro, entrambi oppressi dalla stessa identica forza, entrambi incapaci di lottare contro di essa, che non sembrava dipendere da ognuno di loro, ma minacciarli allo stesso modo tutti e due.

Tacevano, i due abitanti della guerra. L’automatismo perfetto e infallibile – uccidere – non era scattato.

Poljakov, seduto poco distante, guardava anch’esso la faccia setolosa del tedesco. E benchè non amasse stare zitto a lungo questa volta taceva.

La vita era terribile, ma nel fondo dei loro occhi balenò la malinconica consapevolezza che anche dopo la guerra la forza che li aveva schiaffati in quella fossa, cacciando il loro muso nel fango, non avrebbe falciato solo i vinti.

Come se si fossero messi d’accordo si affrettarono ad arrampicarsi fuori dal cratere porgendo schiena e nuca ad una facile fucilata, irremovibilmente sicuri tutti e tre della reciproca incolumità.

Poljakov scivolò, ma il tedesco che cercava di risalire accanto a lui non lo aiutò, e il vecchio si ritrovò nel fondo a imprecare e maledire la luce chiara, verso la quale si inerpicò con rinnovata ostinazione.

Quando Klimov e il tedesco furono in superficie, entrambi si misero a guardare: uno a oriente, l’altro a occidente, se per caso i superiori non vedessero che uscivano tutti e due dalla medesima buca senza essersi combattuti.

Senza voltarsi, senza neanche un “saluto”, ognuno si diresse alle rispettive trincee, colli e valli di terra arata, ancora fumante.

«La nostra casa non c’è più: è stata rasa al suolo» fece spaventato Klimov a Poljakov, che lo raggiungeva trafelato. «Possibile che vi abbiano uccisi tutti, fratelli miei?»

In quel mentre cannoni e mitragliatrici ripresero a puntare tra urla e schianti.

Le truppe tedesche avevano dato inizio alla grande offensiva.

Fu il giorno più duro di Stalingrado.

«Tutta colpa di quel maledetto di Serëža» brontolava Poljakov.

Non aveva ancora capito quanto era accaduto, che nella casa “sei barra uno” non era rimasto nessuno; i singhiozzi e le esclamazioni del compagno lo irritavano…

Grossman Vassilij Semenovic - Vita e destino, pagina 434-435 Jaca Book Milano 1998

 

venerdì 11 gennaio 2008

La principessa Dolgorukaja


Grossman Vassilij Semenovic - Vita e destino, pagina 157-158-159 Jaca Book Milano 1998

        Di notte gli accadeva spesso di ricordare i mesi trascorsi nell'ospedale di Stalingrado. La memoria aveva voluto cancellare la camicia intrisa di sudore, l'acqua dal gusto un po' salato, nauseante, e il puzzo di chiuso che lo avevano tormentato. Ora l’unico sapore di quei giorni era la felicità.
E adesso, nel bosco, ascoltando lo stormire degli alberi, pensava:
"Non ho per caso sentito i suoi passi?"

        Era possibile che tutto ciò fosse successo? Vera lo abbracciava, gli accarezzava i capelli, piangeva mentre lui le baciava gli occhi bagnati che sapevano di sale.
Alle volte Viktorov si figurava di raggiungere con lo Yak Stalingrado, che distava in fondo poche ore, poi poteva fare il pieno a Rjazan', arrivare fino ad Engels, dove l'ufficiale di controllo era un amico. Lo fucilassero pure, dopo.

        Gli veniva sempre in mente una storia che aveva letto in un vecchio libro: dei fratelli, ricconi di Seremetevo, figli di un feldmaresciallo, avevano dato in sposa al principe Dolgorukij una loro sorella di sedici anni, che fino al matrimonio sembra lo avesse visto una volta in tutto. I fratelli avevano assegnato alla fidanzata una dote inestimabile, una massa di argento che occupava tre stanze.
Ma due giorni dopo le nozze Pietro II venne ucciso.

        Dolgorukij, che era il suo uomo di fiducia, fu imprigionato, deportato in Siberia e relegato in un'antica torre. La giovane moglie non volle dar retta ai consigli di sciogliersi dal vincolo di quel matrimonio, dato che in fondo aveva vissuto con lui solo due giorni. Seguì il marito e si stabilì ai margini di un bosco remoto, in un'isba di legno.
Per dieci anni si recò ogni giorno alla torre dove lui era tenuto prigioniero.
Una mattina però vide che la finestra della torre era spalancata e la porta non era più serrata.

        La giovane principessa corse in strada inginocchiandosi davanti ad ogni passante, muzik o arciere che fosse, e pregava e scongiurava di dirle dove fosse suo marito.
La gente le rispose che Dolgorukij era stato portato a Niznij Novgorod. Quante sofferenze dovette sopportare la principessa nel suo peregrinare.
E a Niznij Novgorod venne a sapere che Dolgorukij era stato squartato. Allora la principessa decise di entrare in convento, e partì per la lavra Pecerskaja di Kiev' (importante monastero fondato nell'XI secolo, culla della vita spirituale russa - ndr).
Il giorno della vestizione camminò a lungo per la riva del Dniepr.
Non le rincresceva per la sua sorte, ma nel farsi monaca doveva sfilarsi l'anello nuziale dal quale non riusciva a separarsi...

        Camminò lungo la riva per molte ore, e poi, quando il sole cominciò a tramontare, si tolse l'anello dal dito, lo gettò nel Dniepr e varcò la soglia del monastero.

        Il tenente dell'aeronautica, cresciuto in orfanotrofio, di mestiere meccanico nell'officina di Stal'gres, non faceva altro che ricordare la vita della principessa Dolgorukaja.
Camminando per il bosco, fantasticava di essere morto e che lo avessero sotterrato: ecco l'aereo fulminato dal crucco con il naso schiacciato contro il terreno, ormai arrugginito, i pezzi già coperti di erba, e da quelle parti passa Vera Saposnikova, si ferma, scende giù per il dirupo verso il Volga, lo sguardo fisso nell'acqua...
Duecento anni prima era passata di lì anche la giovane principessa Dolgorukaja, s'inoltrava nella radura, tra gli steli di lino, spostava con le mani i cespugli cosparsi di bacche rosse.

        Lo afferrò un dolore struggente, disperato, ma nello stesso tempo dolcissimo e tenero.
Un giovane tenente dalle spalle strette va per il bosco, con la giubba frusta: quanti di loro sono stati dimenticati in un tempo indimenticabile!

venerdì 28 settembre 2007

Ero scema e scema sono rimasta

Grossman Vassilij Semenovic - Vita e destino, pagina 795 Jaca Book Milano 1998


II graduato, con voce assonnata, borbottò:
«No, no, non dobbiamo nasconderci, questo è il giudizio di Dio.» E rivolgendosi all’aiutante soggiunse: «Andiamo, andiamo, andiamo.»

        Usciti dalla cantina, l’ufficiale e il suo compagno camminavano un po’ più velocemente del solito perché il fardello era più leggero. Sulla barella portavano il cadavere di un'adolescente. Il corpo morto era diventato grinzoso, disseccato, e solo i biondi capelli arruffati conservavano il fascino del latte e del grano, sciolti intorno a uno spaventoso viso color mattone, da uccellino martoriato. La folla si lascio’ sfuggire un sommesso lamento.

        La donna tarchiata cacciò un urlo penetrante, come se un coltello avesse sventrato lo spazio gelido.
«Bambina, bambina! Bambina mia adorata!»
Questo grido, rivolto a un figlio non suo, sconvolse la folla. La donna prese a riaccomodare le tracce di riccioli che ancora si conservavano sulla testa del cadavere. Scrutava il volto con la bocca impietrita in una smorfia e contemporaneamente vedeva, come solo una madre può, quei tratti spaventosi e il volto vivo e amato che una volta le aveva sorriso dalle fasce.

        Si rizzò in piedi. Camminava verso il tedesco e tutti vedevano i suoi occhi non staccarsi un momento da lui e nello stesso tempo cercare a terra un mattone che non fosse incollato agli altri nella morsa del ghiaccio; una pietra che la sua mano malata, storpiata dalla fatica dell’acqua gelida e bollente, dalla lisciva, potesse afferrare.

        La sentinella avvertiva l’ineluttabilità di quello che stava per accadere e non poteva fermare la donna perché era più forte di lui e del suo fucile. I tedeschi non riuscivano a distogliere lo sguardo e anche i bambini la osservavano avidi e impazienti.

        La donna già non vedeva più nulla, tranne il viso del tedesco con la bocca coperta dal fazzoletto. Senza capire cosa le stesse succedendo, portatrice di quella forza che aveva sottomesso tutto all’intorno e lei stessa sottomettendosi a questa forza, tastò nella tasca della giubba imbottita il pezzo di pane che le era stato regalato il giorno prima da un soldato dell’Armata Rossa, lo tese al tedesco e disse:
«To', prendi, mangia.»

        In seguito lei per prima non riuscì a capire cosa le avesse preso. Innumerevoli furono, nella sua vita, i momenti di umiliazione, di impotenza e collera che la sconvolgevano e le impedivano, la notte, di addormentarsi. Ci fu quel litigio con la vicina che l’aveva accusata di aver rubato una bottiglietta d'olio, poi il presidente del soviet che l’aveva cacciata dall’ufficio rifiutando di ascoltare le sue disgrazie condominiali, il dolore e l’avvilimento quando il figlio, appena sposato, aveva cercato di mandarla via dalla sua camera e quando la nuora incinta l’aveva chiamata vecchia troia... Una notte, rivoltandosi nel letto disperata e rabbiosa, si ricordò di quella mattina d'inverno e pensò:
"Ero scema e scema sono rimasta."

“Madre... dell'acqua!”

Grossman Vassilij Semenovic - Vita e destino, pagina 406 Jaca Book Milano 1998

 

        Dei tedeschi, di un distaccamento addetto alle azioni punitive, erano giunti in un villaggio. Il giorno prima, durante il tragitto, due lo commilitoni erano stati uccisi. Verso sera riunirono le donne del paese ordinando loro di scavare una fossa al margine del bosco. 

        Molti soldati si installarono nella casa di una donna anziana. Suo marito venne preso in consegna da un poliziotto e condotto in un uffìcio dove poi si apprese che erano già stati radunati altri venti contadini. 

        La vecchia per tutta la notte non riuscì a chiudere occhio: i tedeschi avevano trovato sotto il pavimento un paniere di uova e un barattolo di miele, accesero la stufa, si fecero una frittata e innaffiarono il tutto con la vodka. Il più vecchio di loro si mise a suonare l'armonìca a bocca e altri a battere i piedi e cantare. 

        Alla padrona di casa badavano tanto quanto fosse un gatto. La mattina, all'alba, si misero a controllare se i fucili erano a posto uno, il più vecchio, urtò senza volere il grilletto facendo partire un colpo che lo ferì alla pancia. Cacciò un urlo e poi un lamento. In qualche modo i tedeschi bendarono il compagno e lo deposero sul letto. Poi da fuori chiamarono. A gesti ordinarono alla donna di vegliare il ferito. La vecchia si accorse che le sarebbe stato facile strangolare quell’uomo che ora chiudeva gli occhi, piangeva, muoveva a vuoto le labbra. 

        D'un tratto il tedesco la guardò e disse distintamente: “Madre, dell'acqua”. “Oh, tu maledetto — esclamò la donna — bisognerebbe soffocarti”, gli porse l’acqua. Lui le prese una mano e le indicò che lo aiutasse sedersi perché il sangue gli impediva di respirare. Lei lo sollevò mentre lui si teneva con le braccia al suo collo. In quel momento echeggiò nel paese una raffica e la donna fu scossa da un tremito. In seguito raccontò l’accaduto ma nessuno la capì, ne lei seppe spiegarlo. Questa specie di bontà è condannata per la sua assurdità nella favola dell'eremita che si era scaldato una serpe in seno. È la bontà che risparmia la tarantola che ha morso un bambino. Bontà folle, dannosa cieca

giovedì 6 settembre 2007

Semenov e zia Christja

Grossman Vassilij Semenovic - Vita e destino, pagina 551/559 Jaca Book Milano 1998

 

        L’autista Semenov, che era caduta prigioniero insieme a Mostovskoj e a Sofja Osipovna Levinton, dopo aver trascorso dieci settimane nel lager della zona del fronte, venne spedito assieme al grosso degli altri prigionieri dell'Armata Rossa verso il confine occidentale. Nel lager nei pressi del fronte, non era mai stato colpito con un pugno, col calcio del fucile, con uno stivale, Nel lager regnava la fame. L'acqua gorgoglia nel canale, schizza, geme, sciaborda contro le sponde, rimbomba, ruggisce, trascina blocchi di pietra, svelle fusti come se fossero fuscelli e il cuore si sente gelare quando guarda il fiume compresso tra le sue strette rive che rimuove, scioglie, e sembra non sia acqua, ma una pesante massa di piombo trasparente ad animarsi, infuriaisi, impennarsi. La fame, come l'acqua, è continuamente e naturalmente legata alla vita e d’un tratto si trasforma in forza che distrugge il corpo, che sgretola e storpia l’animo. Una forza che ha annientato molti milioni di esseri umani. La carestia, la mancanza di foraggio, gelate e nevicate, siccità in steppe e foreste, alluvioni e morie fanno strage di pecore e cavalli, uccidono lupi, uccelli canterini e volpi, api selvatiche, cammelli, trote, vipere. 

        Nei periodi di calamita’ gli uomini, per le sofferenze, diventano simili a bestie. La volontà dello Stato è in grado, coercitivamente, artificiosamente, di dirigere e opprimere con argini la vita e allora, come l’acqua tra le rive troppo strette, la spaventosa forza della fame scuote, storpia, spezza e stermina l’uorno, la stirpe, il popolo. La fame strizza, molecola dopo molecola, l’albumina e il grasso dalle cellule del corpo, la fame rende friabili le ossa, curva le gambe rachìtiche dei bambini, annacqua il sangue, fa girare la testa, prosciuga i muscoli, divora il tessuto nervoso, la fame opprime l’animo, scaccia la felicita’, la fede, soffoca la forza del pensiero, fa nascere la sottomissione, la bassezza, la ferocia, la disperazione e l’indifferenza.

        Alle volte nell'uomo si estìngue completamente quanto c'è di umano e l’essere affamato si trasforma in una creatura capace di uccidere, di nutrirsi di cadaveri, diventa cannibale. Lo Stato è in grado di costruire una muraglia che divide il grano e la segale da coloro che li hanno seminati, e con cio’ provocare una carestia simile a quella che ha ucciso milioni di leningradesi durante il blocco tedesco, simile a quella che ha ucciso milioni di prigionieri di guerra nei recinti dei lager hitleriani. Cibo! Mangiarei Vivande! Abbuffate? Condimento e provviste! Cibarie e pappatoria? Desco grasso, dì carne, dietetico, magro! Desco ricco e abbondante, ricercato, semplice, campagnolo! Leccornie. Bocconi. Mangiare… Bucce di patate, cani, rane, lumache, foglie di cavolo marcio, barbabietola ammuffita, carne di gatto, carne di corvi e cornacchie, grano duro e fradicio, pelle di cintura, stringhe di stivali, colla, terra, risciacquature grasse gettate via dalla cucina degli ufficiali, tutto questo era cibo. Quello che si infiltrava attraverso la muraglia. Questo cibo se lo procacciavano, se Io spartivano, lo barattavano, se lo rubavano l’un l'altro. 

        L'undicesimo giorno dì viaggio, quando il convoglio era fermo alla stazione di Chutor Michailovskij, la guardia tirò fuori dal vagone Semenov che aveva perso conoscenza e lo consegnò alle autorità della stazione. Un tedesco anziano, il comandante, osservò per qualche istante il soldato in fin di vita che stava seduto appoggiato alla parete della stamberga dei pompieri. «Lasciamo che strìsci fino al villaggio, in cella morirebbe dopo un giorno e non c'è motivo di fucilarlo» disse il comandante all’interprete. Semenov si avviò a passi incerti verso il villaggio vicino. Nella prima chata non lo lasciarono entrare. «Non ho niente, vattene» gli rispose da dietro la porta una voce di vecchia. Nella seconda bussò a lungo senza ottenere riposta. Doveva essere vuota o chiusa dall'interno. Nella terza, l’uscio era socchiuso ed egli entrò nell’ingresso. Nessuno lo fermò e allora Semenov s'introdusse nella stanza. Fu investito da un odore caldo. Tra i giramenti di testa si lasciò andare sulla panca accanto alta porta. Respirando in modo affannoso e pesante, guardava le pareti bianche, le icone, il tavolo e la stufa. Era sconvolgente, dopo il recinto del lager. Alla finestra comparve un'ombra ed entrò nella chata una donna che scorgendolo lanciò un urlo» «Chi è?» Non rispose. Era chiaro chi era lui. 

        Quel giorno non erano le forze spietate di potenti Stati, ma un essere umano, la vecchia Christja Cunjak, a decidere la sua vita e il suo destino. Il sole tra le nuvole grigie, sbirciava la terra sconvolta dalla guerra, e il vento, lo stesso che passava sopra trincee e fortini, sopra il filo spinalo dei lager, sulle tribune e i reparti speciali, ululava alla finestrella della chata. La donna porse una scodella di latte a Semenov che prese a ingurgitarlo avidamente, inghiottendo a fatica. Quando fini di bere fu invaso dalla nausea. SÌ contorceva sotto i conati di vomito, gli lacrimavano gli occhi, tirava il fiato rantolando come se stesse per morire e subito riprendeva a vomitare. Semenov cercava di trattenere i conati, tutto preso dalla sola paura: che la padrona di casa non lo scacciasse, cosi’ fetido e sporco. Con gli occhi infiammati vide che la donna aveva preso uno straccio e si era messa a pulire il pavimento.

        Voleva dire che avrebbe lui stesso pulito, lavato, purché non lo scacciasse. Ma riusciva solo a balbettare, facendo segni con le dita tremanti. Intanto il tempo passava. La vecchia continuava a entrare e uscire dalla chata. Non intendeva mandarlo via. Ma chissà, forse aveva pregato la vicina di portare li una pattuglia tedesca o di chiamare la polizia. La padrona di casa mise sulla stufa un pentolone d'acqua. Cominciò a far caido perché dall'acqua si alzavano nuvole di vapore. Il viso della vecchia pareva rabbuiato, cattivo. "Mi scaccerà e dopo disinfetterà la casa che le ho appestato" pensò Semenov. La donna trasse da un baule biancheria e calzoni. Aiuto’ il soldato a svestirsi e fece un fagotto dei suoi abiti. (Gli arrivo’ la puzza del suo stesso corpo lurido, delle sue mutande impregnate di piscio e feci insanguinate). 

        La vecchia lo aiuto’ a sedersi nella tinozza e il suo corpo divorato dai pidocchi percepi’ il contatto delie palme ruvide ed energiche della donna e sul petto il rivolo dell’acqua tiepida insaponata. D’improvviso gli entro’ l’acqua in gola, si mise a tremare; con la mente annebbiata, strillando, inghiottendo il moccio chiamo’: «Mamma... mamma... mammina.» Lei strofino’ con un asciugamano di tela grezza i capelli e le spalle. Prese Semenov per le ascelle, lo fece sedere sulla panca e curvandosi gii asciugò le gambe stecchite, gli infilò camicia e mutande e gli abbottonò i bottoncini bianchi. Versò in un secchio l’acqua sporca della tinozza e la portò fuori. Stese sulla stufa una pelle di pecora e la ricoprì con una grossolana tela a righe, prese dal letto un grande cuscino e lo mise dalla parte del capezzale. Poi, delicatamente, come fosse un pulcino, sollevò Semenov e lo aiuto’ ad arrampicarsi sulla stufa.

        Semenov era mezzo vaneggiante. Il suo corpo percepiva un impensabiie cambiamento: lo sforzo di un mondo inesorabile, di annientare una bestia tormentata, stava venendo meno. Però ne’ nel lager ne’ nel convoglio aveva provato dolori simili: le gambe languide, le dita indolenzite, una nausea continua; la testa, che si riempiva di una poltiglia cruda e nera, all'improvviso leggera e vuota si metteva a girare; bruciore agli occhi, singhiozzo, fìtte alle tempie. Di tanto in tanto il cuore, come trafitto, si arrestava, le viscere si riempivano di fumo: ri sentiva morire. 

        Passarono quattro giorni, Semenov scese dalla stufa e comincio’ a camminare per la stanza. Era colpito dal fatto che il mondo fosse pieno di cibo. Nella vita del campo c'era solo barbabietola guasta. Sembrava che ai mondo ci fosse solo un intruglio; la sbobba del lager, una sbobba che puzzava di marcio. Ora invece vedeva miglio, patate, cavoti, lardo, e sentiva il canto del gallo. E come un bambino aveva l’impressione che ai mondo a fossero due maghi: il buono e il cattivo, e tutto il tempo aveva paura che il mago cattivo sopraffacesse quello buono e che il mondo sazio, caldo, accogliente, scomparisse per costringerlo di nuovo a strappare coi denti un pezzetto di pelle dalla sua cintura. Cominciò a lavorare attorno al mulino a mano che dava una resa miseranda: prima di riuscire a ricavare qualche pugno di farina umida e grigia, la fronte si copriva di sudore. Pulì la cinghia di trasmissione con lima e carta smerigliata e strinse il bullone che collegava il meccanismo con la macina composta di pietre lisce. Fece tutto questo con l’efficienza di un meccanico moscovita con la sua brava istruzione tecnica, migliorò il lavoro rudimentale del suo collega di campagna, ma la macina cominciò a funzionare peggio di prima. 

        Semenov, disteso sulla stufa, pensava a come avrebbe potuto pestare più facilmente il miglio. La mattina seguente smontò di nuovo la macina, e vi inserì rotelle e ingranaggi di vecchie pendole. «Zia Christja, guardi» esclamò .con orgoglio, e mostrò come funzionava, ora, il doppio comando da lui adattato. Praticamente non si parlavano. Lei non raccontava di suo marito morto nel ‘30, dei figli dispersi e della figlia che se ne era andata a Priluk e si era dimenticata di lei. Non gli chiedeva come era stato fatto prigioniero e se fosse nato in campagna o in città. Lui aveva paura di uscire in strada e stava a lungo a guardare dalla finestra prima di andare in cortile, tornando subito affannato dentro casa. Se la porta sbatteva forte, se cadeva a terra una pentola, era scosso dalla paura, pensava che il bene fosse scomparso e la forza della vecchia Christja Cunjak esaurita. 

        Quando una vicina veniva nella chata di Christja, Semenov si arrampicava sulla stufa e se ne stava appiattito, attento a non ansimare e starnutire. Ma di vicini ne venivano pochi. I tedeschi non alloggiavano al villaggio, erano acquartierati in una borgata nei pressi della stazione. Il pensiero di vivere al caldo e in pace, mentre intorno infuriava la guerra, non suscitava in Semenov rimorsi; il suo unico timore era quello di esser nuovamente calamitato nel mondo dei lager e della fame. La mattina, svegliandosi, non osava aprire subito gli occhi: temeva che durante la notte la magia si fosse dileguata e così avrebbe rivisto il filo spinato, la guardia, avrebbe riudito l'odioso tintinnio della gamella vuota. Stava lì, ad occhi chiusi, tutto teso a spiare se per caso Christja fosse scomparsa. 

        Pensava poco al passato recente, non ricordava il commissario Krymov, Stalingrado, il lager tedesco, la tradotta. Ma ogni notte gridava e piangeva nel sonno. Alcune volte aveva visto passare per la strada del villaggio dei camion carichi di patate e sacchi di grano, e un giorno aveva scorto un'automobile Opel Kapitan. Il motore tirava bene e le ruote non slittavano sul fango. Il cuore gli venne meno quando s'immaginò che quelle voci con l’erre aspra si sarebbero messe a schiamazzare e nella chata avrebbe fatto irruzione una pattuglia tedesca. Semenov interrogò la vecchia sui tedeschi e lei rispose col suo russo stentato: «Ce n'è che non sono cattivi. Quando il nostro fronte si ritirò, in casa mia si fermarono due tedeschi, uno studente e l’altro pittore. Giocavano con i bambini - E poi arrivò un autista. Aveva sempre una borsa su di sé. Tornava dai suoi servizi con la borsa piena di lardo e carne. Sembrava l'avesse portata con sé da oltre la frontiera. Si sedeva a tavola e la teneva in mano. Con me è stato buono; mi portava della legna e un'altra volta anche della farina. Ma ci sono tedeschi che uccidono i bambini, da noi uccisero un neonato. Non ci considerano degli esseri umani, fanno i bisogni nelle chate, camminano nudi davanti alle donne. E ce ne sono dei nostri, del villaggio, che appartengono alta polizia e infieriscono sulla gente.» 

        «Tra i nostri non ci sono bestie come i tedeschi» affermò Semenov e chiese: «Zia Christja, non ha paura che io stia da lei?» Lei fece un gesto di diniego con la testa e disse che nel villaggio c'erano molti prigionieri che erano stati liberati; a dire il vero, ucraini soprattutto, tornati al loro paese. In ogni caso lui avrebbe potuto sempre dire che era suo nipote, figlio della sorella emigrata in Russa col marito. Semenov, ormai, conosceva i volti dei vicini e conosceva anche la vecchietta che il primo giorno non lo aveva fatto entrare in casa sua. Sapeva che la sera le ragazze andavano al cinema alla stazione e che il sabato, sempre alla stazione, c'era l'orchestra e si ballava. Lo interessava molto sapere che tipo di film proiettassero i tedeschi. Ma alla zia Christja facevano visita solo vecchi che al cinema non andavano e non aveva nessuno a cui chiederio. 

        Una vicina arrivò con una lettera della figlia che era stata arruolata per andare in Germania. Semenov non riusciva a capire alcuni passi delia lettera e dovettero spiegarglieli. La ragazza scriveva: "Sono arrivati Van'ka e Gris’ca: hanno mandato in frantumi i vetri" Van'ka e Gris’ca prestavano servizio in aviazione. Significava che sulla città tedesca c'era stata un'incursione sovietica. In un altro passo diceva: "È caduta una pioggia forte come a Bachmac. E anche questo stava a significare che c'era stata un'incursione, perché all'inizio della guerra Bachmac aveva subito violenti bombardamenti. 

        Quella sera stessa da Christja venne in visita un vecchio alto e magro. Scrutò Semènov e lo apostrofò con un russo perfetto: «Di dove saresti tu, eroe?» «Sono un prigioniero» rispose questi. «Siamo tutti prigionieri» ribattè il vecchio. Ai tempi di Nicola II il vecchio aveva prestato servizio in artiglieria e ricordava ancora con precisione sbalorditiva i diversi comandi. Comincio’ ad elencarli davanti a Semenov e faceva una voce roca, da russo, per dare gli ordini, mentre annunciava la loro esecuzione con una voce giovane, sonora, dalla cantilena ucraina. Aveva evidentemente memorizzato la parlata del suo capo e la sua stessa intonazione di tanti anni prima. Poi prese a insultare i tedeschi. Raccontò a Semenov che all’inizio la .gente sperava che essi avrebbero liquidato i kolchoz, e invece i tedeschi avevano capito presto che i kolchoz eran giusto quel che ci voleva per loro. Costituirono gruppi di cinque o di dieci che non erano molto diversi dalle squadre e dalle brigate. La zia Christja, con voce strascicata e lamentosa, ripetè: «Oh, i kolchoz, i kolchoz!» «E allora? I kolchoz, è normale, da noi i kolchoz ci sono dappertutto» fece Semenov. 

        La vecchia gli intimò all’improvviso: «Taci, tu. Ricordi in che condizioni sei uscito dal convoglio? Nel 30 tutta l’Ucraina era come un convoglio. Finita l’ortica, avevamo cominciato a mangiare terra... Ci portarono via il pane fino all'ultima briciola. Il mio uomo mori’. Che tortura è stata! Io mi ero gonfiata, avevo perso la voce e non potevo camminare.» Semenov rimase colpito dal fatto che la vecchia Christja avesse fatto la fame come lui. Tutto il tempo aveva pensato che la fame e la carestia fossero impotenti davanti alla buona padrona della chata. «Ma forse eravate dei kulaki?» chiese* «Ma che kulaki! Tutto il popolo moriva, peggio che in guerra.». «E tu sei delia campagna?» chiese iÌ vecchio. «No» sono moscovita» rispose Semènov «come mio padre.» «Ecco» disse il vecchio vantandosene «se tu fossi stato qui all’epoca della collettivizzazione, saresti morto, cittadino, saresti morto subito. Sai perché io ce l'ho fatta? Perché conosco la natura. Tu pensi ghiande, foglie di pioppo, ortica, spinacio selvatico? Erano già state fatte fuori. Io invece conosco cinquantasei piante commestibili. Ecco come sono rimasto vivo. 

        La primavera era appena arrivata, non c'era neanche una fogliolìna e io già estraevo le radicette da terra» Io, fratello, conosco tutto: ogni radice, ogni corteccia, ogni fiore, e conosco tutte le erbe. La mucca, la pecora, il cavallo, chi vuoi tu, morirà di fame, ma non io, io sono più erbivoro di loro.» «Di Mosca?» richiese lentamente Christja «non sapevo che eri di Mosca.» II vicino se ne andò, Semenov si arrampicò sulla stufa, mentre Christja, seduta col viso tra le mani, scrutava il ciclo nero delta notte. Quell'anno di tanto tempo fa il raccolto era stato abbondante. Il miglio formava una parete compatta, alta, che superava la spalla de! suo Vasilij, e quanto a lei ci si sarebbe potuta nascondere rimanendo diritta. Sul paese era sospeso un lamento lungo e sommesso: i bambini strisciavano sul pavimento e piagnucolavano in maniera appena percettibile, gli uomini con i piedi gonfi vagavano per i cortili, sfiniti dal rantolo della fame. Le donne s'ingegnavano a preparare una broda commestibile ma tutto era stato cucinato: ortica, ghiande, foglie di pioppo, zoccoli consumati, ossa, corna, pelle di pecora non conciata… E i ragazzi che venivano dalla città andavano per i cortili, passavano accanto alla gente morta o in fin di vita, aprivano le cantine, scavavano buche nei granai, battevano con i bastoni di ferro in terra, cercavano e requisivano il grano nascosto dei kulaki. 

        In un soffocante giorno estivo Vasilij Cunjak si spense, smise di respirare. Alla stessa ora, nella chata entrarono di nuovo i giovanotti che venivano dalla città e uno dagli occhi azzurri con la pronuncia aperta, alla russa, proprio come Semenov, fece avvicinandosi al morto: «S’e’ impuntato il kulaki, ha resisitito fino a morire, senza riguardo per la sua vita.» Cristja fece un sospiro, si segno’ e comincio’ a prepararsi il letto.