giovedì 6 settembre 2007

Semenov e zia Christja

Grossman Vassilij Semenovic - Vita e destino, pagina 551/559 Jaca Book Milano 1998

 

        L’autista Semenov, che era caduta prigioniero insieme a Mostovskoj e a Sofja Osipovna Levinton, dopo aver trascorso dieci settimane nel lager della zona del fronte, venne spedito assieme al grosso degli altri prigionieri dell'Armata Rossa verso il confine occidentale. Nel lager nei pressi del fronte, non era mai stato colpito con un pugno, col calcio del fucile, con uno stivale, Nel lager regnava la fame. L'acqua gorgoglia nel canale, schizza, geme, sciaborda contro le sponde, rimbomba, ruggisce, trascina blocchi di pietra, svelle fusti come se fossero fuscelli e il cuore si sente gelare quando guarda il fiume compresso tra le sue strette rive che rimuove, scioglie, e sembra non sia acqua, ma una pesante massa di piombo trasparente ad animarsi, infuriaisi, impennarsi. La fame, come l'acqua, è continuamente e naturalmente legata alla vita e d’un tratto si trasforma in forza che distrugge il corpo, che sgretola e storpia l’animo. Una forza che ha annientato molti milioni di esseri umani. La carestia, la mancanza di foraggio, gelate e nevicate, siccità in steppe e foreste, alluvioni e morie fanno strage di pecore e cavalli, uccidono lupi, uccelli canterini e volpi, api selvatiche, cammelli, trote, vipere. 

        Nei periodi di calamita’ gli uomini, per le sofferenze, diventano simili a bestie. La volontà dello Stato è in grado, coercitivamente, artificiosamente, di dirigere e opprimere con argini la vita e allora, come l’acqua tra le rive troppo strette, la spaventosa forza della fame scuote, storpia, spezza e stermina l’uorno, la stirpe, il popolo. La fame strizza, molecola dopo molecola, l’albumina e il grasso dalle cellule del corpo, la fame rende friabili le ossa, curva le gambe rachìtiche dei bambini, annacqua il sangue, fa girare la testa, prosciuga i muscoli, divora il tessuto nervoso, la fame opprime l’animo, scaccia la felicita’, la fede, soffoca la forza del pensiero, fa nascere la sottomissione, la bassezza, la ferocia, la disperazione e l’indifferenza.

        Alle volte nell'uomo si estìngue completamente quanto c'è di umano e l’essere affamato si trasforma in una creatura capace di uccidere, di nutrirsi di cadaveri, diventa cannibale. Lo Stato è in grado di costruire una muraglia che divide il grano e la segale da coloro che li hanno seminati, e con cio’ provocare una carestia simile a quella che ha ucciso milioni di leningradesi durante il blocco tedesco, simile a quella che ha ucciso milioni di prigionieri di guerra nei recinti dei lager hitleriani. Cibo! Mangiarei Vivande! Abbuffate? Condimento e provviste! Cibarie e pappatoria? Desco grasso, dì carne, dietetico, magro! Desco ricco e abbondante, ricercato, semplice, campagnolo! Leccornie. Bocconi. Mangiare… Bucce di patate, cani, rane, lumache, foglie di cavolo marcio, barbabietola ammuffita, carne di gatto, carne di corvi e cornacchie, grano duro e fradicio, pelle di cintura, stringhe di stivali, colla, terra, risciacquature grasse gettate via dalla cucina degli ufficiali, tutto questo era cibo. Quello che si infiltrava attraverso la muraglia. Questo cibo se lo procacciavano, se Io spartivano, lo barattavano, se lo rubavano l’un l'altro. 

        L'undicesimo giorno dì viaggio, quando il convoglio era fermo alla stazione di Chutor Michailovskij, la guardia tirò fuori dal vagone Semenov che aveva perso conoscenza e lo consegnò alle autorità della stazione. Un tedesco anziano, il comandante, osservò per qualche istante il soldato in fin di vita che stava seduto appoggiato alla parete della stamberga dei pompieri. «Lasciamo che strìsci fino al villaggio, in cella morirebbe dopo un giorno e non c'è motivo di fucilarlo» disse il comandante all’interprete. Semenov si avviò a passi incerti verso il villaggio vicino. Nella prima chata non lo lasciarono entrare. «Non ho niente, vattene» gli rispose da dietro la porta una voce di vecchia. Nella seconda bussò a lungo senza ottenere riposta. Doveva essere vuota o chiusa dall'interno. Nella terza, l’uscio era socchiuso ed egli entrò nell’ingresso. Nessuno lo fermò e allora Semenov s'introdusse nella stanza. Fu investito da un odore caldo. Tra i giramenti di testa si lasciò andare sulla panca accanto alta porta. Respirando in modo affannoso e pesante, guardava le pareti bianche, le icone, il tavolo e la stufa. Era sconvolgente, dopo il recinto del lager. Alla finestra comparve un'ombra ed entrò nella chata una donna che scorgendolo lanciò un urlo» «Chi è?» Non rispose. Era chiaro chi era lui. 

        Quel giorno non erano le forze spietate di potenti Stati, ma un essere umano, la vecchia Christja Cunjak, a decidere la sua vita e il suo destino. Il sole tra le nuvole grigie, sbirciava la terra sconvolta dalla guerra, e il vento, lo stesso che passava sopra trincee e fortini, sopra il filo spinalo dei lager, sulle tribune e i reparti speciali, ululava alla finestrella della chata. La donna porse una scodella di latte a Semenov che prese a ingurgitarlo avidamente, inghiottendo a fatica. Quando fini di bere fu invaso dalla nausea. SÌ contorceva sotto i conati di vomito, gli lacrimavano gli occhi, tirava il fiato rantolando come se stesse per morire e subito riprendeva a vomitare. Semenov cercava di trattenere i conati, tutto preso dalla sola paura: che la padrona di casa non lo scacciasse, cosi’ fetido e sporco. Con gli occhi infiammati vide che la donna aveva preso uno straccio e si era messa a pulire il pavimento.

        Voleva dire che avrebbe lui stesso pulito, lavato, purché non lo scacciasse. Ma riusciva solo a balbettare, facendo segni con le dita tremanti. Intanto il tempo passava. La vecchia continuava a entrare e uscire dalla chata. Non intendeva mandarlo via. Ma chissà, forse aveva pregato la vicina di portare li una pattuglia tedesca o di chiamare la polizia. La padrona di casa mise sulla stufa un pentolone d'acqua. Cominciò a far caido perché dall'acqua si alzavano nuvole di vapore. Il viso della vecchia pareva rabbuiato, cattivo. "Mi scaccerà e dopo disinfetterà la casa che le ho appestato" pensò Semenov. La donna trasse da un baule biancheria e calzoni. Aiuto’ il soldato a svestirsi e fece un fagotto dei suoi abiti. (Gli arrivo’ la puzza del suo stesso corpo lurido, delle sue mutande impregnate di piscio e feci insanguinate). 

        La vecchia lo aiuto’ a sedersi nella tinozza e il suo corpo divorato dai pidocchi percepi’ il contatto delie palme ruvide ed energiche della donna e sul petto il rivolo dell’acqua tiepida insaponata. D’improvviso gli entro’ l’acqua in gola, si mise a tremare; con la mente annebbiata, strillando, inghiottendo il moccio chiamo’: «Mamma... mamma... mammina.» Lei strofino’ con un asciugamano di tela grezza i capelli e le spalle. Prese Semenov per le ascelle, lo fece sedere sulla panca e curvandosi gii asciugò le gambe stecchite, gli infilò camicia e mutande e gli abbottonò i bottoncini bianchi. Versò in un secchio l’acqua sporca della tinozza e la portò fuori. Stese sulla stufa una pelle di pecora e la ricoprì con una grossolana tela a righe, prese dal letto un grande cuscino e lo mise dalla parte del capezzale. Poi, delicatamente, come fosse un pulcino, sollevò Semenov e lo aiuto’ ad arrampicarsi sulla stufa.

        Semenov era mezzo vaneggiante. Il suo corpo percepiva un impensabiie cambiamento: lo sforzo di un mondo inesorabile, di annientare una bestia tormentata, stava venendo meno. Però ne’ nel lager ne’ nel convoglio aveva provato dolori simili: le gambe languide, le dita indolenzite, una nausea continua; la testa, che si riempiva di una poltiglia cruda e nera, all'improvviso leggera e vuota si metteva a girare; bruciore agli occhi, singhiozzo, fìtte alle tempie. Di tanto in tanto il cuore, come trafitto, si arrestava, le viscere si riempivano di fumo: ri sentiva morire. 

        Passarono quattro giorni, Semenov scese dalla stufa e comincio’ a camminare per la stanza. Era colpito dal fatto che il mondo fosse pieno di cibo. Nella vita del campo c'era solo barbabietola guasta. Sembrava che ai mondo ci fosse solo un intruglio; la sbobba del lager, una sbobba che puzzava di marcio. Ora invece vedeva miglio, patate, cavoti, lardo, e sentiva il canto del gallo. E come un bambino aveva l’impressione che ai mondo a fossero due maghi: il buono e il cattivo, e tutto il tempo aveva paura che il mago cattivo sopraffacesse quello buono e che il mondo sazio, caldo, accogliente, scomparisse per costringerlo di nuovo a strappare coi denti un pezzetto di pelle dalla sua cintura. Cominciò a lavorare attorno al mulino a mano che dava una resa miseranda: prima di riuscire a ricavare qualche pugno di farina umida e grigia, la fronte si copriva di sudore. Pulì la cinghia di trasmissione con lima e carta smerigliata e strinse il bullone che collegava il meccanismo con la macina composta di pietre lisce. Fece tutto questo con l’efficienza di un meccanico moscovita con la sua brava istruzione tecnica, migliorò il lavoro rudimentale del suo collega di campagna, ma la macina cominciò a funzionare peggio di prima. 

        Semenov, disteso sulla stufa, pensava a come avrebbe potuto pestare più facilmente il miglio. La mattina seguente smontò di nuovo la macina, e vi inserì rotelle e ingranaggi di vecchie pendole. «Zia Christja, guardi» esclamò .con orgoglio, e mostrò come funzionava, ora, il doppio comando da lui adattato. Praticamente non si parlavano. Lei non raccontava di suo marito morto nel ‘30, dei figli dispersi e della figlia che se ne era andata a Priluk e si era dimenticata di lei. Non gli chiedeva come era stato fatto prigioniero e se fosse nato in campagna o in città. Lui aveva paura di uscire in strada e stava a lungo a guardare dalla finestra prima di andare in cortile, tornando subito affannato dentro casa. Se la porta sbatteva forte, se cadeva a terra una pentola, era scosso dalla paura, pensava che il bene fosse scomparso e la forza della vecchia Christja Cunjak esaurita. 

        Quando una vicina veniva nella chata di Christja, Semenov si arrampicava sulla stufa e se ne stava appiattito, attento a non ansimare e starnutire. Ma di vicini ne venivano pochi. I tedeschi non alloggiavano al villaggio, erano acquartierati in una borgata nei pressi della stazione. Il pensiero di vivere al caldo e in pace, mentre intorno infuriava la guerra, non suscitava in Semenov rimorsi; il suo unico timore era quello di esser nuovamente calamitato nel mondo dei lager e della fame. La mattina, svegliandosi, non osava aprire subito gli occhi: temeva che durante la notte la magia si fosse dileguata e così avrebbe rivisto il filo spinato, la guardia, avrebbe riudito l'odioso tintinnio della gamella vuota. Stava lì, ad occhi chiusi, tutto teso a spiare se per caso Christja fosse scomparsa. 

        Pensava poco al passato recente, non ricordava il commissario Krymov, Stalingrado, il lager tedesco, la tradotta. Ma ogni notte gridava e piangeva nel sonno. Alcune volte aveva visto passare per la strada del villaggio dei camion carichi di patate e sacchi di grano, e un giorno aveva scorto un'automobile Opel Kapitan. Il motore tirava bene e le ruote non slittavano sul fango. Il cuore gli venne meno quando s'immaginò che quelle voci con l’erre aspra si sarebbero messe a schiamazzare e nella chata avrebbe fatto irruzione una pattuglia tedesca. Semenov interrogò la vecchia sui tedeschi e lei rispose col suo russo stentato: «Ce n'è che non sono cattivi. Quando il nostro fronte si ritirò, in casa mia si fermarono due tedeschi, uno studente e l’altro pittore. Giocavano con i bambini - E poi arrivò un autista. Aveva sempre una borsa su di sé. Tornava dai suoi servizi con la borsa piena di lardo e carne. Sembrava l'avesse portata con sé da oltre la frontiera. Si sedeva a tavola e la teneva in mano. Con me è stato buono; mi portava della legna e un'altra volta anche della farina. Ma ci sono tedeschi che uccidono i bambini, da noi uccisero un neonato. Non ci considerano degli esseri umani, fanno i bisogni nelle chate, camminano nudi davanti alle donne. E ce ne sono dei nostri, del villaggio, che appartengono alta polizia e infieriscono sulla gente.» 

        «Tra i nostri non ci sono bestie come i tedeschi» affermò Semenov e chiese: «Zia Christja, non ha paura che io stia da lei?» Lei fece un gesto di diniego con la testa e disse che nel villaggio c'erano molti prigionieri che erano stati liberati; a dire il vero, ucraini soprattutto, tornati al loro paese. In ogni caso lui avrebbe potuto sempre dire che era suo nipote, figlio della sorella emigrata in Russa col marito. Semenov, ormai, conosceva i volti dei vicini e conosceva anche la vecchietta che il primo giorno non lo aveva fatto entrare in casa sua. Sapeva che la sera le ragazze andavano al cinema alla stazione e che il sabato, sempre alla stazione, c'era l'orchestra e si ballava. Lo interessava molto sapere che tipo di film proiettassero i tedeschi. Ma alla zia Christja facevano visita solo vecchi che al cinema non andavano e non aveva nessuno a cui chiederio. 

        Una vicina arrivò con una lettera della figlia che era stata arruolata per andare in Germania. Semenov non riusciva a capire alcuni passi delia lettera e dovettero spiegarglieli. La ragazza scriveva: "Sono arrivati Van'ka e Gris’ca: hanno mandato in frantumi i vetri" Van'ka e Gris’ca prestavano servizio in aviazione. Significava che sulla città tedesca c'era stata un'incursione sovietica. In un altro passo diceva: "È caduta una pioggia forte come a Bachmac. E anche questo stava a significare che c'era stata un'incursione, perché all'inizio della guerra Bachmac aveva subito violenti bombardamenti. 

        Quella sera stessa da Christja venne in visita un vecchio alto e magro. Scrutò Semènov e lo apostrofò con un russo perfetto: «Di dove saresti tu, eroe?» «Sono un prigioniero» rispose questi. «Siamo tutti prigionieri» ribattè il vecchio. Ai tempi di Nicola II il vecchio aveva prestato servizio in artiglieria e ricordava ancora con precisione sbalorditiva i diversi comandi. Comincio’ ad elencarli davanti a Semenov e faceva una voce roca, da russo, per dare gli ordini, mentre annunciava la loro esecuzione con una voce giovane, sonora, dalla cantilena ucraina. Aveva evidentemente memorizzato la parlata del suo capo e la sua stessa intonazione di tanti anni prima. Poi prese a insultare i tedeschi. Raccontò a Semenov che all’inizio la .gente sperava che essi avrebbero liquidato i kolchoz, e invece i tedeschi avevano capito presto che i kolchoz eran giusto quel che ci voleva per loro. Costituirono gruppi di cinque o di dieci che non erano molto diversi dalle squadre e dalle brigate. La zia Christja, con voce strascicata e lamentosa, ripetè: «Oh, i kolchoz, i kolchoz!» «E allora? I kolchoz, è normale, da noi i kolchoz ci sono dappertutto» fece Semenov. 

        La vecchia gli intimò all’improvviso: «Taci, tu. Ricordi in che condizioni sei uscito dal convoglio? Nel 30 tutta l’Ucraina era come un convoglio. Finita l’ortica, avevamo cominciato a mangiare terra... Ci portarono via il pane fino all'ultima briciola. Il mio uomo mori’. Che tortura è stata! Io mi ero gonfiata, avevo perso la voce e non potevo camminare.» Semenov rimase colpito dal fatto che la vecchia Christja avesse fatto la fame come lui. Tutto il tempo aveva pensato che la fame e la carestia fossero impotenti davanti alla buona padrona della chata. «Ma forse eravate dei kulaki?» chiese* «Ma che kulaki! Tutto il popolo moriva, peggio che in guerra.». «E tu sei delia campagna?» chiese iÌ vecchio. «No» sono moscovita» rispose Semènov «come mio padre.» «Ecco» disse il vecchio vantandosene «se tu fossi stato qui all’epoca della collettivizzazione, saresti morto, cittadino, saresti morto subito. Sai perché io ce l'ho fatta? Perché conosco la natura. Tu pensi ghiande, foglie di pioppo, ortica, spinacio selvatico? Erano già state fatte fuori. Io invece conosco cinquantasei piante commestibili. Ecco come sono rimasto vivo. 

        La primavera era appena arrivata, non c'era neanche una fogliolìna e io già estraevo le radicette da terra» Io, fratello, conosco tutto: ogni radice, ogni corteccia, ogni fiore, e conosco tutte le erbe. La mucca, la pecora, il cavallo, chi vuoi tu, morirà di fame, ma non io, io sono più erbivoro di loro.» «Di Mosca?» richiese lentamente Christja «non sapevo che eri di Mosca.» II vicino se ne andò, Semenov si arrampicò sulla stufa, mentre Christja, seduta col viso tra le mani, scrutava il ciclo nero delta notte. Quell'anno di tanto tempo fa il raccolto era stato abbondante. Il miglio formava una parete compatta, alta, che superava la spalla de! suo Vasilij, e quanto a lei ci si sarebbe potuta nascondere rimanendo diritta. Sul paese era sospeso un lamento lungo e sommesso: i bambini strisciavano sul pavimento e piagnucolavano in maniera appena percettibile, gli uomini con i piedi gonfi vagavano per i cortili, sfiniti dal rantolo della fame. Le donne s'ingegnavano a preparare una broda commestibile ma tutto era stato cucinato: ortica, ghiande, foglie di pioppo, zoccoli consumati, ossa, corna, pelle di pecora non conciata… E i ragazzi che venivano dalla città andavano per i cortili, passavano accanto alla gente morta o in fin di vita, aprivano le cantine, scavavano buche nei granai, battevano con i bastoni di ferro in terra, cercavano e requisivano il grano nascosto dei kulaki. 

        In un soffocante giorno estivo Vasilij Cunjak si spense, smise di respirare. Alla stessa ora, nella chata entrarono di nuovo i giovanotti che venivano dalla città e uno dagli occhi azzurri con la pronuncia aperta, alla russa, proprio come Semenov, fece avvicinandosi al morto: «S’e’ impuntato il kulaki, ha resisitito fino a morire, senza riguardo per la sua vita.» Cristja fece un sospiro, si segno’ e comincio’ a prepararsi il letto.

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